Mons. Slawomir Oder al Campus bio-Medico di Roma

Incontro di Mons. Slawomir Oder al Campus bio-Medico di Roma
consegna solenne della Reliquia al Campus
(Roma -28 marzo)

“Mio caro vecchio amico, ecco che ci rivediamo”. Sono le parole di un anziano signore africano, avvicinatosi in Nigeria alla Reliquia di Giovanni Paolo II durante una sua ostensione.

A citarle, nella Cappella del Campus Bio-Medico di Roma, è stato ieri sera Mons. Slawomir Oder, Postulatore della Causa di Beatificazione di Karol Wojtyla, durante la cerimonia di consegna all’Ateneo romano della Reliquia, un frammento della veste indossata dal Santo Padre al momento dell’attentato subito il 13 maggio 1981 in Piazza San Pietro. Quell’anziano signore fu a lungo, durante il pontificato di Giovanni Paolo II, ambasciatore della Nigeria presso la Santa Sede.

Proprio sul tema della “speranza”, nella testimonianza e negli insegnamenti di Giovanni Paolo II, si è voluto soffermare Mons. Oder durante la prolusione tenuta nell’Aula Magna dell’Università: “Gli incontri con il mondo accademico costituivano una costante delle sue visite apostoliche. Lui stesso,consapevole del ruolo della scienza nella costruzione dell’umanità nuova iniziata dall’evento dell’Incarnazione del Logos, chiamava questi incontri ‘diaconia della Verità’. In tutti i suoi viaggi apostolici vi fu sempre un momento d’incontro con gli studenti e i docenti delle università.

Il Pontefice faceva sue le parole del poeta polacco del periodo del romanticismo, Cyprian Kamil Norwid, che affermava: “La speranza viene dalla verità!” In questa prospettiva, tra i numerosissimi incontri con il mondo accademico, alcuni acquistano un significato particolare, quasi simbolico, per comprendere il valore che il Papa attribuiva all’università come locum spei”.

Inscindibile dal tema della speranza quello della “verità”. Il significato che questa parola ebbe per il Beato Wojtyla è stato sottolineato dall’ex portavoce della Santa Sede, Joaquín Navarro-Valls, con uno degli aneddoti tratti dai molti anni trascorsi accanto al Papa polacco: “Un giorno, durante una breve pausa durante un viaggio in Spagna, nel tono colloquiale con cui ci si poteva intrattenere con il Papa, gli chiedemmo: ‘Santo Padre, si immagini che improvvisamente i testi della Sacra Scrittura vadano distrutti nel mondo e Lei ha la possibilità di salvare solo una frase. Quale salverebbe?’ – E il Papa citò senza esitare un secondo la frase del Vangelo di Giovanni ‘La verità vi farà liberi”.

Navarro-Valls, nel suo intervento a braccio tra i giovani dell’Ateneo, ha anche ricordato come tratto fondamentale di Karol Wojtyla il buon umore. “Sapeva sempre vedere le cose in positivo e aveva un grande senso dell’umorismo. Un giorno, preoccupato del suo affaticamento e dei momenti di riposo troppo brevi che si concedeva, gli raccontai che in Italia c’era uno Statuto dei Lavoratori che prevedeva trenta giorni all’anno di vacanze pagate. Lui mi ascoltò e fece per scherzo il gesto di stringersi il volto pensoso tra le mani, poi mi disse: ‘Peccato, peccato, davvero peccato!’ – Che cosa, Santo Padre?! – ‘Peccato che non sono un lavoratore dello Stato Italiano, ma del Vaticano”.

La Reliquia della veste intrisa di sangue per le ferite da arma da fuoco, è da oggi esposta in modo permanente presso la Cappella Minore del Policlinico Universitario del Campus Bio-Medico. Sull’attentato subito il 13 maggio 1981, quando, appena entrato in piazza San Pietro per un’udienza generale, mentre si trovava a bordo della sua papamobile, Giovanni Paolo II fu ferito gravemente da due proiettili sparati a distanza ravvicinata dal sicario turco Ali Agca.

Mons. Oder ha spiegato nel Processo per la Causa di Beatificazione che l’evento “non è stato tanto affrontato in chiave politica, quanto piuttosto come un’occasione avuta da Karol Wojtyla per sperimentare la potenza del perdono, dell’amore e dell’affidamento alla Madonna. Un’occasione che il Papa ha avuto per vivere in prima persona il suo insegnamento sul senso della sofferenza umana”.

Due anni dopo l’attentato, Giovanni Paolo II si recherà a trovare Ali Agca, condannato all’ergastolo, nel carcere di Rebibbia. Del colloquio tra il Santo Padre e il suo sicario non trapelerà mai nulla: “Ho parlato con lui come si parla con un fratello, al quale ho perdonato e che gode della mia fiducia. Quello che ci siamo detti è un segreto”. Si saprà solo che in tutto il colloquio Ali Agca, killer professionista, appariva traumatizzato dal fatto di aver sparato e non aver ucciso da una distanza tanto ravvicinata. “Lo sconvolgeva di dover ammettere che c’era stato Qualcuno o Qualcosa che gli aveva mandato all’aria il colpo” – racconterà il Santo Padre.

Fu invece, da subito, convinzione profonda del Beato Wojtyla, che il colpo più pericoloso dei due sparati, fosse stato deviato dalla Madonna, risparmiando al Santo Padre una traiettoria mortale. La stessa data dell’attentato, il 13 maggio, festa della Madonna di Fatima, portò Giovanni Paolo II con sicurezza a identificare in quello scampato pericolo il tragico evento annunciato nel terzo segreto di Fatima. Fu così che il 25 marzo 1984, durante la celebrazione eucaristica in San Pietro per la consacrazione del mondo al Cuore Immacolato di Maria, Giovanni Paolo II consegnò all’allora Vescovo di Leiria-Fatima, Mons. Alberto Cosme do Amaral, il proiettile che lo aveva colpito e che da allora si trova incastonato nella corona della statua della Madonna di Fatima, offerta alla Vergine dalle donne portoghesi il 13 ottobre 1942.

Dal sito della Postulazione

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