Riconoscimento 2016, intervista a Manfredi Borsellino

di Grazia Pia Attolini

Manfredi Borsellino, figlio del giudice ucciso in via D’Amelio nel 1992, sarà a Bisceglie il prossimo 14 maggio per ricevere il Riconoscimento Giovanni Paolo II, che dà merito alla sua azione di difesa della legalità.
Quando il padre, oggi simbolo della lotta contro la mafia, venne ucciso a Palermo, aveva solo 21 anni. Lui che studiava Legge e aveva già deciso di servire lo Stato, da quel momento ha perseguito il suo intento con umiltà, senza riflettori e con l’unico intento di contribuire a rendere migliore questo mondo.
Umile servitore dello Stato presso Cefalù, fa vita di commissariato senza far parlare tanto di sé perché ama fare e non mostrarsi, combattere la mafia sul campo e non farsi promotore di cerimonie “di facciata” (questa definizione risale allo scorso luglio in occasione delle manifestazioni in ricordo dell’assassinio di Paolo Borsellino).
In attesa di essere ospite a Bisceglie durante la serata in Concattedrale in cui insieme agli altri premiati (tra cui si ricordano: Gigi D’Alessio, il Cardinale Paul Joseph Jean Poupard, don Giuseppe Costa, Mons. Dario Viganò, Beatrice Fazi e Gabriele Cirilli, Fabio Salvatore, Loredana Errore, Fabio Marchese Ragona, Max Laudadio, Mariella Nava, capitano Stefano, generale Massa, Michele La Ginestra), darà testimonianza della sua azione, Manfredi Borsellino si racconta.

Come ha accolto la notizia del Riconoscimento intitolato a Giovanni Paolo II?
«Ho appreso la notizia di questo riconoscimento con una punta di sincero imbarazzo atteso che – come anche ho riferito al professore Natalino Monopoli – sono fermamente convinto di non avere i titoli per ricevere un premio così prestigioso.
Pur tuttavia ritengo che chiunque si trovi ad avere associato il proprio nome al grande e indimenticato Papa Giovanni Paolo II non può che provare imbarazzo e senso si inadeguatezza, tanto siamo piccoli rispetto alla grandezza di quest’uomo e rispetto a ciò che ha rappresentato per le vecchie e per le nuove generazioni».

Tema dell’edizione 2016 del Riconoscimento è la difesa del Creato. Studenti di ogni grado degli istituti del territorio del Nord barese si cimenteranno in un concorso su questo tema dando vita ad elaborati di vario genere. Come si insegna ai piccoli e ai giovani il rispetto del mondo nel nome della legalità e della giustizia?
«È importante trasmettere alle nuove generazioni l’amore per la natura, per un creato che purtroppo l’azione dell’uomo spesso fa di tutto per danneggiare e disperdere, considerato che proprio attraverso le immense bellezze naturali che ci circondano che il Signore ci manifesta il suo amore e direi “si manifesta”. D’altra parte rispettando la natura e l’ambiente noi rispettiamo noi stessi per cui mi sento di poter affermare che il rispetto e l’amore per il prossimo “passa” anche dal rispetto e dall’amore per ciò che Dio ha creato e di cui ci ha fatto dono».

Quale il suo rapporto con la fede?
«Ho vissuto in una famiglia profondamente cristiana, con due genitori che non si sono limitati a trasmetterci i valori tipici del cristianesimo ma che sotto questo aspetto hanno per noi figli rappresentato costantemente un esempio da seguire e, possibilmente, da emulare.
Nostro padre praticava la fede ed era un uomo capace di enormi slanci di generosità vera, nel senso che aiutava parenti, amici, conoscenti e financo collaboratori di giustizia senza che nessuno di essi sapesse che era lui il donatore; nostra madre è stata un esempio di umiltà, quella stessa umiltà che era stata del marito e che forse rappresenta la virtù più grande che ci hanno lasciato i nostri genitori».

Ha mai avuto modo di conoscere il Santo Padre polacco?
«Purtroppo non abbiamo mai avuto l’onore di conoscere di persona il grande Papa Giovanni Paolo II. Probabilmente se solo ci fossimo adoperati per chiedere negli anni successivi la morte di nostro padre un incontro privato con il Santo Pontefice ci sarebbe stato verosimilmente accordato ma, invero, il nostro desiderio di stare e rimanere molto lontano dai riflettori ci ha fatto anni fa desistere anche dal presentarci ad un’udienza privata che il Papa polacco aveva riservato a tutti i familiari delle vittime della mafia e della criminalità di matrice terroristico-mafiosa. Sappiamo di avere perso quel giorno una grande occasione ma sappiamo anche che non vi era bisogno di un contatto diretto con Papa Wojtyla per sentircelo sempre e comunque al nostro fianco».

Oggi è commissario di Polizia. Quanto ha influito nella sua scelta di studi e di vita l’influenza dell’esempio di suo padre?
«La scelta di fare il Commissario di polizia trae origine dal desiderio, ancora molto forte nella mia persona, di fare quanto è nelle mie possibilità (e capacità) per consentire ai miei figli di vivere in una società più “pulita” e “onesta” di quella in cui ha vissuto il loro nonno e il loro stesso padre.
In qualche modo la mia è stata forse una scelta professionale “obbligata”, obbligata perché quando da piccolo, da adolescente, si respira ogni giorno dentro le mura di casa aria di giustizia, legalità e rispetto delle leggi, non può che farsi la scelta che mi sono ritrovato a fare sia io che, in ambiti professionali diversi, le mie sorelle.
L’odio per le ingiustizie, per le sopraffazioni, i soprusi e la tracotanza, tipica quest’ultima soprattutto degli uomini di mafia che mio padre ha combattuto, mi hanno portato a servire le istituzioni attraverso la Polizia di Stato, quella stessa amministrazione pubblica cui – non va sottaciuto – appartenevano i cinque agenti che hanno sacrificato la loro vita per mio padre».

di Grazia Pia Attolini 

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